Chiara De Luca, Animali prima del diluvio, prefazione di Gianluca Chierici, Bologna, Kolibris, 2010, pp. 120.
All’opposto della poesia nuda, dispersa, murata di Stelvio Di Spigno si pone la poesia metaforica, intensa, votata pressoché esclusivamente al discorso amoroso di Chiara De Luca (nata nel 1975 ; una laurea in lingue a Pisa ; un Master in traduzione letteraria per l’editoria presso l’Università di Bologna, dove ha conseguito un Dottorato in letterature europee, con tesi sull’opera giovanile di R. M. Rilke ; già diverse traduzioni all’attivo da inglese, francese, tedesco, spagnolo e portoghese). Come ci segnala l’autrice stessa nella notizia introduttiva, « animali prima del diluvio è una raccolta antologica cui ho dato una struttura tematica e stilistica coerente e organica, nata da una selezione effettuata su un corpus molto più ampio di testi » (p. 5). Quattro sono le sezioni del libro, dai titoli che già orientano, con la loro tensione fantastica, il lettore : I grani del buio ; confinando l’inverno ; del vento la preghiera ; La corolla del ricordo. Fulminante la poesia d’esordio, che delimita il perimetro della prima sezione, immaginandolo come un « campo ferito » ai confini del quale si aprono « sentieri infiniti » : « È un campo ferito la storia di ciascuno / sentieri infiniti si aprono ai confini / selci sono pietre miliari di domande / sabbia morbida ad accogliere le orme, / in un proliferare dissennato di stagioni » (p. 13). In questo campo è invitata a fare il suo ingresso una figura, cui il poeta ha conferito un potere sovrano, assoluto, « di vita, di morte, / o di capire », una figura che non solo si pone al centro di ogni verso, ma lo genera con il suo solo nome : « Il tuo nome è un prisma infinito / riverbera sillabe che ricombino / a chiamarti, e ogni cosa » » (p. 18). La campitura metaforica dell’esordio è giustamente sviluppata anche nelle poesie successive, che insistono sull’ambientazione rurale per dar corpo a sensazioni e stati d’animo : « fascine scomposte di attesa » (p. 14) ; « sul petto sarchio il buio » (p. 15) ; « li vedi i sentieri che abbiamo / lasciato » (p. 18) ; « la farina della resa » (p. 24) ; « Svio verso i colli a seminarmi » (p. 25) ; « Sterili canne sono adesso le parole, / si sporgono dal fango ritentando / di risalire in gola a germogliare » (p. 26) ; « Si apre la grotta d’aria spessa / sul tunnel di silenzio dei giardini, / allineo i passi con cura sul sentiero / centrando spazi liberi tra i sassi » (p. 34) ; « ombra tra ombre seminata » (p. 38). Solo nella poesia conclusiva della sezione compare il nome di Bologna, luogo reale – s’immagina – della vicenda, che nondimeno precipita a ogni giro di verso verso un buio primitivo, ferino (p. 24) animale (seguendo l’indicazione del titolo, che è riproposto nella poesia di p. 21) : « Essere niente e voler essere tutto, / nelle tue caverne brancolo a cercare / se con me nel buio per errore / hai lasciato cadere una traccia del tuo bene » (p. 27). Storia che è raccontata, per brandelli, dentro un inverno sterile, freddo, che è quello – come si intuisce gradatamente – di un abbandono, di un’assenza.
Le sezioni successive, cronologicamente più avanzate, sembrano inasprire il dettato metaforico, con un’accentuazione di elementi crudi, che spesso vanno ad amplificare campi metaforici già individuati nella sezione d’esordio, come nel seguente componimento, uno dei pochissimi ad essere datato : « Le parole corona di candele / ardente la resa a un domani spaventoso. / Chiederanno forse le ragioni impronunciate / di quest’apoplettico tacere, / saranno chiodi a fondo in angoli di labbra / per varcare a forza la soglia del sentire / per divaricare le radici dell’amore. / Nella terra degli occhi lesti seminiamo / svolgendo germogli in foglie nelle mani / quando scatteranno le tagliole della luce / scivolerà nel nero la bestia del pudore / carpiranno solo vento tra le piume » (p. 57). Nella persistenza, quasi ossessiva, del tema amoroso, si accentuano i motivi della notte e del buio (così come gli elementi ctonii), la riflessione metalinguistica sul valore della parola, la presenza di un lessico corporeo, ma soprattutto la tendenza sia a fare del verso un’unità immaginosa quasi chiusa in se stessa (con esiti che richiamano a volte la poesia di Antonio Porta), sia a chiudere ogni componimento in un unico, compatto periodo.
Se la metafora è il cuore fedele, costante di questa poesia (« i palmi del tempo », p. 15 ; « i boccaporti del buio », p. 16 ; « gli stipiti degli anni », p. 59 ; « le unghie brevi del pensiero », p. 60 ; « le reti dell’aurora », p. 70 ; ecc.), non manca, nel complesso, un’attitudine a saggiare in profondità, e con esiti vari, la materia linguistica, per caricarla di maggiore espressività : si nota per esempio una predilezione per i gerundi (come si evince anche dal titolo della seconda sezione) e i participi, anche di rara se non inedita fattura (« nudate del senso fino al silenzio », p. 16 ; « cerco un cielo calmo desertato », p. 51), così come la costruzione di una sequenza non omogenea di aggettivi e sostantivi (« Fui fiera, vergogna, distanze », p. 14). Di particolare forza la zona degli esordi e delle chiuse, che recingono la trama interna di questo piccolo (e protetto) canzoniere. I risultati più convincenti, nel complesso, paiono quelli contenuti nella terza sezione (La corolla del ricordo), dov’è un maggiore equilibrio tra tensione metaforica e descrittiva, una sorta di quieta sospensione dello sguardo : « È stata così piccola la pioggia / nel cadere, docile e precisa per spezzare / il flusso silenzioso e uguale della notte vedi / non torna l’asciuttezza calma del terreno / nei viali foglie marce che dissolveranno / grandi pozze dove come un sasso cade / lo sguardo che ha cessato di cercare / passa lentamente a guado il fango / cede e non ritorna » (p. 81).