Domenica 11 maggio, Stefano Leoni si è spento nella sua Forlì a seguito di una grave malattia. Stefano ci ha lasciati molto più soli, come avviene quando se ne va un ottimo poeta e una splendida persona. La parola che più di frequente ricorre nei ricordi a lui tributati in questi giorni dalle persone che lo hanno conosciuto è “gentile”. Dote rara quanto preziosa. Così era Stefano Leoni. Una persona riservata e garbata, onesta e rispettosa. Non era assillato dall’ambizione e dal desiderio di riconoscimento come molti. Piuttosto sempre attento a non calpestare, né scalfire la sacralità dei rapporti umani, che per lui venivano prima d’ogni altra cosa. Era umile, Stefano, forse troppo. Mai insistente, mai pretenzioso, sempre grato. Arrivava in punta di piedi nella tua vita, e lo stesso faceva in poesia. Porgeva la sua parola poetica quasi timidamente, con gesti sobri, in tono pacato, senza mai urlare, né in poesia, né fuori.
Kolibris ha pubblicato pochi poeti italiani, tra loro Stefano è stato il più presente. La sua voce ha accompagnato Kolibris fin dai suoi esordi, nel 2008, la sua presenza è stata costante nel corso di tutti gli eventi pubblici inaugurali della casa editrice
Risultando tra i vincitori del “X Concorso di scrittura amorosa”, indetto dal Comune di Bellaria Igea Marina con la collaborazione di Kolibris nel 2009, Stefano è stato incluso nel primo volume Kolibris in assoluto, quello da noi più atteso, oggi ormai introvabile, che comprendeva le opere degli autori selezionati dalla giuria, presieduta da Milo De Angelis.
Poi Stefano ha continuato a vincere, quando nel 2010 la giuria del concorso Pubblica gratis con Kolibris è stata unanime nell’attribuirgli il primo premio, la pubblicazione del suo splendido Basse verticali.
Molto altro si potrebbe ancora dire di Stefano e della sua poesia, ma credo sia meglio lasciare a lui la parola. Nel sito di Kolibris trovate le poesie incluse nel volume risultante dal X Concorso di Scrittura amorosa e il poemetto Il condominio, che chiude la raccolta Basse verticali.
Qui trovate la mia prefazione a Basse verticali (http://amarginedeiversi.wordpress.com/leoni-stefano)
Chiara De Luca
Da Basse verticali, Edizioni Kolibris 2010.
Il condominio
Non sono che l’anima di un pesce
con le ali
volato via dal mare
per annusare le stelle
difficile non è nuotare contro la corrente
ma salire nel cielo
e non trovarci niente.
Ivano Fossati, Ho sognato una strada
Il tempo lascia scie al passaggio
penitente delle nocche ossute
sulla superficie granulosa della parete
e sparge sottili lingue di pelle
dal rosa al rosso
L’amore passa distrattamente
aggredito dalle ombre e luci
tra le lamelle delle veneziane
C’è un lamento ondulato,
l’allarme di una abitazione al piano attico
scivola nella strombatura delle scale
aumentando l’altezza dei gradini
– non ci abita nessuno, qualche sera
rumore di tacchi, a volte lo stridio
delle ceramiche ad impilarsi –
Il corpo risponde con contrazioni
e qualche inesattezza nei ritmi,
le iridi invece si dilatano nel ricercare le tracce
Il sorriso sul volto è angolare
gemono i cardini delle parole sull’uscio
Capire, cogliere l’istante nel quale la somiglianza
spiega il percorso, illuminarsi
prima di una caduta asciutta nel pulviscolo,
nella foschia di uno sguardo destinato
(come la morte improvvisa del tabaccaio
– e non aveva mai fumato, faceva 5 km a piedi
tutti i giorni dal negozio alla famiglia – )
raccolti tutti i dolori procurati senza consapevolezza
inghiottite le colpe immanifeste di essere vivo,
di essere parziale, di essere
eternamente inesistente, esistito per essere annullato,
il sospetto
C’è nel verdognolo, nel giallino, nell’alone
ciò che resta di un passaggio veloce
un oggetto scagliato
la scia immaginata, la rifrazione di energie
colte dall’imperfetto,
l’imperfezione immaginifica dell’occhio molecolare,
deforme traduzione per infiniti idiomi
Alla signora dell’ammezzato
è sufficiente un delirio radiotelevisivo
l’uso nucleare della menzogna
nemmeno la necessità del pensiero doppio
nemmeno;
succhia la polvere con il suo macchinario
vorace assorbe inghiotte
polvere di cemento, sassi d’asfalto
cellule d’epidermide, ragni e capelli
(illusa necessità di essere incorrotti,
estranei, soli)
privati del perdono.
Acciambellarsi come un gatto
sui cuscini di una dormeuse
nel breve distacco dalla terra, tesa,
parallelamente
collocarsi nell’ingannevole per spingere
via da sé, né oltre né alle spalle,
la responsabilità di essere brevi.
Tre figli nell’appartamento del secondo piano
tre misteri generati dall’assurdo desiderio
di occupare un tempo improprio
sei gambe nuove a calpestare
a correre, a saltellare
inutili quanto immensamente necessari
corpicini finitamente infiniti
(la creazione incessante del parziale)
Eppure lì la deflagrante
compromissione della piccolezza
il dovere di credersi superbamente rinnovati,
la consegna del replicante, inaspettatamente
Silenzio. Qualche schiocco solitario:
il linguaggio dei legni, dei giunti,
la terra che si assesta, improvviso
ricordare che tutto è in movimento,
tutto è divenire, anche la Terra, anche i muri.
Al terzo piano un poeta diserba i campi,
avvelena la lingua, la strozza,
estirpando scopre l’orizzonte
(l’immenso è sempre essenziale).
Parla a un Dio parallelo, alla moltitudine
evanescente che popola il deserto.
Il poeta sa cosa stracciare, nutre di spazi nulli,
di silenzi, e non sa se la magrezza
riempie i vuoti o il vuoto mastica
la sua temuta impotenza.
Ma i poeti sfiatano la massa bruciante,
fanno tremare la crosta, lanciano al cielo
getti come inarrestabili geyser,
sputano sperma nell’universo a fecondare
il mai nulla, il mai vuoto,
così nascono le galassie, bruciano le stelle
e le comete indicano.
Un pianto muta i cieli in polvere,
le pareti precipitando mostrano l’oleoso confine
a esigere l’ordine innaturale dei percorsi
(Fummo fatti per scrutare l’infinita complessità
delle povere cose, l’amorevole abbraccio
delle fondamenta e il timoroso sospiro al sovrastante)
Così il cuore si sfrangia, abituato al crepuscolo
e alle voci di marmo di improvvise certezze.
Affascinanti riverberi dorati al quarto piano
battono sulle porte d’ebano dai mille catenacci
l’avida centralità di un sogno mozzo,
superba supremazia di cose e cose;
cantano i talleri balzando sugli intarsi,
il meglio stretto fra le dita, credendo,
o chi per esso, arrendevole, supplendo,
di avere tanto in cumuli impazziti.
Sento il respiro corto nella notte,
le dita artiglio, l’arco del ventre teso
pronto alla lotta: difendere e colpire.
Sento il rantolo cupo fra le sete,
il ghiaccio degli occhi e la paura,
la polvere posata sull’altare.
Una linea più scura all’altezza delle mani
un corrimano senza dimensione
prova di passaggi ripetuti e di incertezze
un’ombra di vissuto smarrito e rimasto
fino alla prossima vernice
lungo le scale e lungo la memoria
come il trucco su inevitabili rughe.
Qui al primo piano sto pallido.
Nel crepuscolo delle mani chiuse
affido il respiro alla vitale incoerenza
Mi piace stare nudo fra i muri
accontentarmi di immaginare una ferita
che faccia luce e interrompa la pelle,
che inumidisca le guance, e stringa
in un abbraccio.
Il condominio accudisce le esistenze
ascolto l’urlo delle differenze
e attendo un tempo di spazi annullati
Avrei potuto scegliere altre stanze.
Amore mio, carne e campagna,
così lontano in questa notte di pietre
Da XI Concorso di Scrittura amorosa. Opere vincenti, Kolibris 2009
*
Ho carne addosso
anche se la luce mi piega
allo specchio le ossa
Ho carne addosso viva.
Adesso parlami del tempo
di quante estati e delle piogge
non temo le gocce a bagnarmi le spalle
e non ho avuto timore di lei
del bottone scivolato dall’asola
femmina luna piena e stelle
rimbalzi di luce negli occhi-
Ho carne irrorata addosso
non sono solo cornice e tela
ma pasta di colori e traccia di pennello
e passo attraverso le ore
di segno e di grumi lucenti
Ho soffice carne addosso
e un’abitudine al respiro,
così mi resta dentro il tuo sorriso
alla distanza piccola di un bacio,
così prendo le mani al vento
e ancora mi sconfino.
Non temo le carezze uguali,
il desiderio d’amore non chiede
da quale strada il passo
e come sbalza il mistero sul confine
Ho carne dolce addosso
e illumina le buche, parla a Dio,
se torna farò gran festa
e sarò ventre sarò carezze
lungo le coste sarò mare
e carne nuda addosso.
Amarti obliquamente, come guidare
lungo una provinciale che passa sotto
la secante, dove le auto sfrecciano
tagliando le nostre traiettorie, di sfioro.
*
Il verbo attraversò l’inganno
e si riaffacciò alle pietre – come collane al collo –
il destino, allacciato al suo nome
Fuoco gli sembrò quell’avventura, irta
come i calanchi deserti delle sue colline,
ferite secche.
Era l’amore, dunque, quella miseria oltraggiata?
Una pagina capovolta, come i disegni
consegnati alla notte, oscuri segni, in cerca.
Carne, mutata in gesso.
Del suo sterile destino vide il rostro e l’artiglio
accanto a una benevolenza sciatta, ammorbata,
e scosse il silenzio come un tuono
la parola.
Era l’amore, dunque, quella sparsa condanna?
Tracciò un semicerchio nell’aria, un Dio incompleto,
lo stesso che aggiunse ai sette innumerevoli sfumature
e punì come immondo, per altre bocche,
l’occhio che intravide l’intero spettro.
Non era un’alba ancora giungendo alla foce
strinse saldamente le mani al volo dei pipistrelli
e scese fino al fondo della valle, poi nella fessura
penetrando la Terra.
Era l’amore, dunque, quella luce impaurita?
A un cielo di pianeti e croste, di corpi muti
offrì un raggio sufficiente.
*
Mi chiedo cosa, alla fine, quando il tempo
è tutto dietro, e si sfila da noi
come il sesso si sfila dopo averci preso
solo l’arretrare, quello sgonfiarsi
un po’ malinconico, un po’ ridicolo
quel momento
nel quale il gesto appare sciocco
– a vedersi da fuori, tutta la fatica,
l’ansimare, l’incastro, scambiare fluidi,
in quelle posizioni inenarrabili, da cane –
eppure dentro pulsava a volte a farci male
così dolce a volte, è strano
come anche il dolore sia benedetto
in certi tardi pomeriggi d’ottobre,
come può essere parte e calore, infitto
nelle pieghe è rassicurazione quel dolore sottile
Cosa poi, nel distacco dell’ultima bava,
di un filamento che si aggrappa
ancora da carne a carne,
foss’anche un malanno, una condanna
come una corrente elettrica
tutto quel correre di elettroni e di sangue
passaggio di bene e di male,
tendere le braccia a trattenere
accorgersi di quanto sudore, e di come
sia grazia, imbarazzante grazia,
leccare l’odore acidulo nelle fosse.
E cosa dunque, dopo, distrattamente
cosa c’è e cosa niente,
ritornare arreso, nemmeno perdersi,
nell’inguine l’energia delle stelle
e alla fine
Stefano Leoni Forlì 1961 – Forlì 2014). Laureato in Economia, è stato cofondatore dell’Associazione culturale “Poliedrica” di Forlì e suo Presidente dalla data di fondazione a oggi (2007-2014). Ha allestito diverse mostre di poesie in immagine fondendo fotografia e poesia. Nel 2005 ha pubblicato la sua prima raccolta Ipotesi sottili (ed. Il Ponte Vecchio, Cesena), finalista al premio “Renata Canepa” di Torino 2006 e tra i vincitori al premio Arcobaleno della Vita – Città di Lendinara 2008.
Maurizio Cucchi ha segnalato sue poesie nella rubrica “Scuola di poesia” su “Specchio” n. 511 de La Stampa e su “Tuttolibri” de La Stampa del 7 dicembre 2007. Vincitore e finalista in diversi premi nazionali di letteratura, fra i quali il Città di Forlì, Prosapoetica 2007 e Pubblica con noi 2008 di Fara editore, sue poesie sono pubblicate su riviste e nelle seguenti antologie di LietoColle: Il segreto delle fragole 2007 e Stagioni e Verba Agrestia 2007. Nel febbraio 2008 ha pubblicato la raccolta Frane e frammenti, edito dalla Casa Editrice Lietocolle di Faloppio (Co). Nel marzo 2008 è stato incluso nell’antologia Il silenzio della poesia, edita da Fara Editore di Rimini, e nel novembre 2008 nell’antologia Storie e versi, sempre edita da Fara Editore di Rimini. Nel 2010 è uscito il suo terzo libro Basse Verticali per l’editore Kolibris di Bologna.