Royall Tyler, Il prigioniero algerino

Collana Antracite – Narrativa
Royall Tyler, Il prigioniero algerino
ISBN 978–88–96263–72–3

pp. 358, € 15

Pubblicato negli Stati Uniti nel 1797 e in Inghilterra nel 1802, Il prigioniero algerino torna a rivelare notevoli spunti di interesse nell’attuale contesto globale che esige riflessioni sulla necessità di conoscenze interculturali e di una corretta comprensione dell’alterità, e quindi sul rifiuto dell’etnocentrismo di impronta europea, postulando una parallela revisione oggettiva della cultura di appartenenza e degli statuti che la connotano. Oltre a fornire un sagace ritratto dell’America a chiusura del periodo coloniale, esso sembra preannunciare i recenti rapporti problematici tra Stati Uniti e alcune nazioni islamiche, e il dibattito che ne consegue.

L’ironia è la cifra stilistica di questo romanzo eclettico, un’ironia complessa di tipo socratico da cui affiora la saggezza che mira a distruggere false verità e cognizioni imperfette, mitologie esasperate e incoerenti preconcetti, derivanti tutti dalla presunzione di sapere come pure da ineludibili concomitanze storiche. Nel Volume I essa si manifesta con maggiore enfasi e con esiti umoristici nei confronti del New England e di altre regioni statunitensi, laddove nel secondo appare mitigata dal prevalere di ruvidi tentativi di obiettività, non sempre riusciti, nel delineare l’incontro con le principali culture nordafricane scaturite da due religioni monoteiste: quella islamica indagata più nei dettagli, e quella ebraica misurata attraverso stereotipi correnti che restano invariati.

Royall Tyler usa l’ironia in funzione maieutica, introducendo il dubbio sulla situazione contemporanea e mirando a ridimensionare il mito dell’America democratica e progressista esaltata a fine Settecento, nell’euforia dei decenni post-rivoluzionari, come faro di giustizia sociale e di progresso illuminista per il mondo occidentale. Avvisi di inquietudini romantiche lo inducono, nel trasporto per l’uguaglianza e la libertà di espressione di ogni popolo, a evidenziare limiti nel rapporto con gli altri, e contraddizioni sostanziali, anche del proprio Paese. Ma la negatività esposta è provvisoria e relativa e prelude, com’è consuetudine del metodo socratico, alla predisposizione mentale per l’accoglimento di una realtà positiva. In un delicato equilibrio, Tyler critica con fermezza i punti deboli della nuova Repubblica, primo tra tutti l’istituto dello schiavismo, eppure mediante un rovesciamento discorsivo conferma l’eccellenza dei presupposti su cui essa è nata.

Il prigioniero algerino – uno dei primi romanzi americani, ora proposto in traduzione italiana – prende spunto dalle tensioni con alcuni Paesi del Nord Africa, che raggiungono l’apice a fine Settecento. In tale periodo, un considerevole numero di cittadini statunitensi viene catturato dai pirati di Barberia nelle acque dell’Atlantico e del Mediterraneo. In attesa del pagamento di un possibile lauto riscatto, i prigionieri vengono venduti come schiavi e impiegati per anni nei lavori più gravosi. Il che potenzia in patria il dibattito sullo schiavismo.

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