Collana Antracite – Narrativa
John Barnie, Storie della shopocrazia. Un ritratto di mio padre e del suo mondo
ISBN: 978-88-96263-52-5
pp. 240, € 12
Le storie della shopocrazia erano tutte dello stesso genere. Le storie popolari non erano più in voga già da molto tempo, ma l’urgenza di raccontare storie sulle loro vite rimase viva tra i membri della shopocrazia, così come la necessità di dar loro una forma gradevole dal punto di vista formale. A dispetto delle loro intenzioni, l’arte rientrava dalla finestra e si esprimeva attraverso le loro stesse bocche. Per questo motivo, le storie raccontate dai negozianti avevano uno status ambiguo. Erano sempre basate su esperienze vissute da loro, o da persone che conoscevano, ed erano perciò considerate “autentiche”. Allo stesso tempo, una volta che un avvenimento si era rivelato abbastanza significativo da divenire soggetto di una storia, gli veniva subito conferita una forma precisa, così gli eventi sarebbero sempre stati ricordati nello stesso ordine, con le stesse parole. Di rado si aggiungeva qualcosa, oppure qualcosa si ometteva alla luce di una conoscenza più approfondita di quel che era realmente avvenuto. Una volta che una storia aveva preso forma, diventava verità. Punto e basta.
Pur essendo considerate vere, queste storie erano comunque incerte, poiché i dettagli considerati sconvenienti in termini di estetica erano spesso omessi, mentre altri venivano aggiunti, altri abbelliti. Da bambino sentivo e risentivo le storie introdotte dagli adulti nelle conversazioni che avvenivano al di sopra della mia testa. Avrei potuto giocare con i soldatini sul pavimento, invece ascoltavo, anche, assorbendo le storie in una trapunta patchwork di “cose realmente successe.” […] Da bambino credevo incondizionatamente a queste storie. Quando divenni abbastanza vecchio per essere io stesso un osservatore o un partecipante di alcuni degli eventi che costituivano la materia prima di una storia, mi resi conto delle discrepanze. “No, non è andata così”, dicevo a mia madre, la principale cantastorie della nostra famiglia, “questo-o-quell’altro non è avvenuto lì.” Oppure “era a Barry, non a Porthcawl.” Talvolta lei dissentiva, ma nella maggior parte dei casi diceva “Oh, sì, è così.” Quando però raccontava la stessa storia in un’altra occasione, la discrepanza tra quel che io sapevo essere avvenuto e il suo racconto si ripresentava. Io pensavo che mia madre avesse dimenticato la mia osservazione, e di nuovo la correggevo. Soltanto ora, ripensandoci tanto tempo dopo la sua morte, ho realizzato che quelle storie – soprattutto le sue – erano frutto di un senso condizionato della verità. Per la versione aneddotica di un evento erano importanti i dettagli, ma non ogni genere di dettagli. E il fatto che l’evento non fosse avvenuto a Barry, come mia madre diceva, o questo-o-quell’altro fosse avvenuto in qualche altro posto, era ininfluente nella misura in cui non interferiva con l’evento-in-quanto-storia, ovvero con la versione raffinata che lei avrebbe sempre narrato nello stesso modo, con profonda convinzione, fino alla sua morte.