Giancarlo Pera, Fratt/ali

Collana Chiara – Poesia italiana
Giancarlo Pera, Fratt’ali
Prefazione di Stefano Serri
ISBN: 979-12-81236-30-1
pp. 100, € 15

Quello che entra con facilità nell’orecchio vi esce facilmente e viceversa, scriveva pressappoco Karl Kraus. La ricerca lessicale, che ho lodato, viene condotta in questo libro senza temere le interferenze e le intermittenze con il lettore, magari scoraggiato dal trovare termini così poco familiari e famigliari; ma esigere dal pubblico un minimo di sforzo, anche se, lo so, non va di moda, rimane la più onesta condotta di artista. Nel caso di fratt’ali, oltre all’ombra di un vocabolario, nella lettura mi ha accompagnato una sensazione che quasi m’impauriva, tanto sembrava certezza: la sensazione che questo autore, capace di rinunciare a ogni maiuscola e punteggiatura, abile nel variare metri e lunghezze, comunque sia le ama, e le ama molto, queste parole che usa. Oso: ama le parole come persone. Il che non significa istituire paragoni di valore, che sarebbero per me comunque perdenti, poiché due secondi della vita della più oscura, inutile e fosse anche sciocca creatura, valgono di certo molto più di ogni invenzione, sinfonia o cattedrale mai create. Non nel valore, ma nel modo: mi sembra, cioè, che l’autore abbia imparato ad amare, rincorrere, assecondare, ascoltare le persone (a volte con stanchezza, disillusione, sfregio) e poi abbia applicato a sillabe, sinonimi e fonemi un amore simile. Ama soprattutto le parole schive / refrattarie alla mostra di sé, come scrive in un breve manifesto della debolezza; e ama anche le parole scure e brune e cupe, quelle che permettono di parlare della fine, come in un’altra poesia, non rughe; crepe invece. Le ama chiare, le ama nere, sonore o sornione, velate o scoperte, le ama tutte le parole, questo autore, come chi ha visto persone di ogni tipo e sempre è rimasto, se non accanto, almeno attento.

E del titolo, per finire, bisogna proprio parlare, con quel suo gioco tipografico e verbale, ricavando due parole e molte suggestioni da un termine poco comune. I frattali, questo fenomeno che la natura esprime in molte sue creazioni, dalle montagne ai fiocchi di neve, questa capacità di creare-per-sempre, riprodursi in forme sempre nuove e sempre fedeli, questo accanimento della vita a non lasciare nulla di vuoto, ecco che per la poesia pare un ottimo viatico, o rimedio. Io forse a volte mi ostino a vedere tutto luminoso, tutto votato al chiaro, salvo poi esaurirmi e incespicare, scivolare, come un fiotto di buio nel buio. Le poesie di questo libro non ignorano le ombre e le piaghe, né le appianano con un rudimentale e illecito ottimismo: qualche poesia finisce senza gran luce finale, qualche strofe tratta da ergastolo il vivere, da pustole i sogni. Ma – e il ma, il nonostante, il forse, sono già un piccolo presidio di salvezza – Giancarlo Pera in questi versi (e in altri) si ostina e ci ostina, e sembra vero: vale la pena (perché la pena non manca) vale la pena cercare la paroletta perduta, lasciando incustodito il gregge delle altre novantanove parole sicure, e cercarla, inseguirla tra i lupi, affrontare i dirupi, ritrovarla e portarsela in spalla, con le altre, e poi fare festa, tanta festa (poesia) perché quello che sembrava per sempre perduto è stato per sempre ritrovato.

Dalla prefazione di Stefano Serri

non avrò mani per il lavacro
né vesti che mi fingano vivo

non cercheranno volonterosi
per distinguere tra venature
la più adatta a cedere dopo,
né si offriranno spalle zelanti
che patiscano, ma con garbo

non avrò mani per il lavacro

né vesti che mi fingano vivo

non cercheranno volonterosi

per distinguere tra venature

la più adatta a cedere dopo,

né si offriranno spalle zelanti

che patiscano, ma con garbo

sarò arrendevole alla pioggia

e condiscendente al pantano

ignoto a comunità perbeniste

purché siano stelle comete

a pascolare i ricordi ipogei

ad ogni loro fiorire segreto

***

da che restai a contemplare

il mio unico ulivo in giardino

e tra quei rami cangianti al vento

a stupire come per la prima volta

che non un’oliva sia al tempo suo

così vorrei neanche nascere

e in quell’argento e il suo reverso

nel mentre, scordare d’essere stato

***

la privazione

ha parole che restano mute,

mentre s’affastellano rumori

senza l’eco che scavi dimora

al pensiero

dinoccolati residui d’anima

senza corpi

che già bastarono appena

a stabbiare

la colpa d’essere ancora qui

pèrdono il destino di morire

allora, e perfino dopo:  oggi

***

nebbia ruffiana

m’incontra d’un tratto

mi alleggerisco

di rimorsi e rimpianto

giaccio libero al suo giogo

***

sento le mie parole vecchie e dolenti

che una ad una dicono la loro perduta occasione

d’essere almeno antiche e d’avvertire lieve

il fascino d’esserlo, poi tutte insieme

sono questo grumo di silenzio che mi scortica

l’udito quando poggio l’orecchio

a catturare il respiro che tra l’una e l’altra

scandisce il passo fuori dall’eco

e s’inabissa fino al bordo dell’ultima trincea, rotto

sarò arrendevole alla pioggia

e condiscendente al pantano

ignoto a comunità perbeniste

purché siano stelle comete

a pascolare i ricordi ipogei

ad ogni loro fiorire segreto

***

da che restai a contemplare

il mio unico ulivo in giardino

e tra quei rami cangianti al vento

a stupire come per la prima volta

che non un’oliva sia al tempo suo

così vorrei neanche nascere

e in quell’argento e il suo reverso

nel mentre, scordare d’essere stato

***

la privazione

ha parole che restano mute,

mentre s’affastellano rumori

senza l’eco che scavi dimora

al pensiero

dinoccolati residui d’anima

senza corpi

che già bastarono appena

a stabbiare

la colpa d’essere ancora qui

pèrdono il destino di morire

allora, e perfino dopo:  oggi

***

nebbia ruffiana

m’incontra d’un tratto

mi alleggerisco

di rimorsi e rimpianto

giaccio libero al suo giogo

***

sento le mie parole vecchie e dolenti

che una ad una dicono la loro perduta occasione

d’essere almeno antiche e d’avvertire lieve

il fascino d’esserlo, poi tutte insieme

sono questo grumo di silenzio che mi scortica

l’udito quando poggio l’orecchio

a catturare il respiro che tra l’una e l’altra

scandisce il passo fuori dall’eco

e s’inabissa fino al bordo dell’ultima trincea, rotto

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