Collana Chiara – Poesia italiana contemporanea
Maria Teresa Giustozzi, Frammenti
Prefazione di Stefano Serri
ISBN: 979-12-81236-39-4
pp. 82, € 15
La mia devozione era varcare un altrove di tempo e di luoghi, dove scorrono fiumi simili a quelli inferi; i corpi, tutte le cose, affondano in essi col loro peso concreto.
La mia devozione era contemplare immagini e il loro affollarsi, e talora assemblarsi in forme, trasparenti talora come la superficie dell’acqua, talora vive e sensibili come i corpi veri e vivi in natura.
La mia devozione era ricercare nel fondale azzurro ciò che per sua propria luce splende.
La mia devozione era in ciò che è numero e disegno, e traccia davanti ai miei occhi la meraviglia che mi rapisce.
La mia devozione era nel gesto in cui le mani si tendono per scrivere, come filando e dipanando e tessendo suoni in parole. La parola, nel ritmo, scandisce le maglie del tessuto, disegna legami di senso, e in quei legami e in quelle figure io posso vedere ciò che penso, seguirne il respiro. Tali devono essere le parole che io possa vederle, perché nel suono e nel ritmo io ho dato loro sostanza, come cose vere e vive. Tali devono essere le parole, e con esse le immagini, che io possa metterle di fronte alle cose e alla loro natura, e da qui di fronte ad altri pensieri. Tali devono essere le parole, che io possa ritrovarmi in esse di fronte alle cose, e anche oltre le parole, nel silenzio di fronte alle cose. Dire ogni cosa deve essere per me ricordare, nel canto.
Dalla premessa di Maria Teresa Giustozzi
Varcando la soglia del libro, entrando nella prima sezione, compare proprio lei, lo strumento che userà l’artefice per bulinare questi tronchi pagine, la navicella che ci ospiterà per transitare: la parola stessa, figura tra le altre figure nel mondo, ma diversa, perché il mondo ce lo fa toccare o ce lo allontana, secondo il peso e la forma e il senso che assume nel nostro pensiero, nel nostro parlato; parola che non indovina, non è in cerca di presagi, ma attenta, molto attenta, a «ciò che è vuoto nelle cose, / e che per poco nel nulla non cade.» A questo primo appello alle forze, perché guidino animo, gambe e mano, segue il primo viaggio, infero, notturno, sotterraneo e sommerso: appena si inizia a parlare, è tempo di tacere. È il mito di Orfeo ed Euridice, è il momento in cui i poeti non contemplano più cosa combina il vento sulle cime degli alberi, ma puntano gli occhi al suolo, a «un cammino che non si osserva, / un solco sotto le foglie / cadute», un canto che non chiede grandi orchestre, o interi cori di anime, ma sostenuto da un murmure parco, come «il silenzio / della traccia dei serpenti». È una sezione, la seconda, dove la cosiddetta (spesso a sproposito detta) poetica delle piccole cose, che è in realtà impresa ardua, questa attenzione al minimo e al basso si assottiglia ulteriormente, vive di bisbigli, legni cavi, cuore calmo, prepara il letto che invaderà, presto, una stagione nuova; interroga la terra, ma non è lei, è il vento, che «foglia a foglia risponde».
Dalla postfazione di Stefano Serri
I
Che sia: per ogni parola, il riflesso lucente
del sole sui granelli di sabbia bagnata.
Per ogni parola, il profumo sonoro
delle foglie nuove degli arbusti
e dei fili d’erba.
Per ogni parola, la distesa del bosco
e lo spazio della collina,
la sua costellazione di alberi vivi.
Per ogni parola, lo scrigno dell’istante
che mi custodisce, che mi offre al tempo.
Per ogni parola, il suono affettuoso delle voci,
e gli accenti indecidibili del cuore.
Per ogni parola un passo:
così io le parole riconoscevo
dal loro eco nella terra.
II
Si affretta la parola, come corpo
che io creo, che resta e dura,
fino a che non svanisce, ma cambia.
Quanto esso conserva,
in esso risuona, o tace.
Questo corpo che io con parole creo
null’altro è che un pegno:
con esso io nel fuoco
onoro ciò che muore,
esso è traccia lasciata dall’atto,
esso gioca nell’immagine
viva tra le fiamme.
Esso canta e resta,
a patto di sempre fare ordine,
raccogliere i resti e la pura cenere,
desiderare il dono del silenzio,
che non è morte.
Ma ciò che accade nella cenere,
io non so indovinare.
Come un desiderio
evoco figure che riconosco.
Vedo ciò che è vuoto nelle cose,
e che per poco nel nulla non cade.
III
Io non so se altro sia dato di comprendere,
se altro vi sia che si offre allo sguardo,
se il tempo sia d’immortale spirito nutrito.
Nel tessuto delle cose,
nelle colorate figure descritte,
se io non mi perdo e non dimentico,
persino il tempo sento vivo,
persino ciò che è illusorio
mi sorride e non mi inganna.
La sorpresa del responso
leggo ancora sulle foglie,
sottile come il soffio che le porta;
fino a che, cadute, ogni stagione
le rassicura. Questo è il mistero
nell’argilla, il suo raccogliere vive forme
e il suo tornare ad essere soffio e vento,
che non si perde, ma in nubi s’aduna,
e indugia, e ridisegna molte forme.
IV
Tanto perfetto è il gioco:
sembra intero e moltiplicato il frammento,
mentre il suono soltanto resta
e sa dire e sa ripetere,
come se mai nulla fosse passato.
Come non comprendere – soles
occidere et redire possunt –
che se pure non si spegne
la rabbia dell’assenza,
l’affetto della cenere,
la polvere che resta
non dissolta, inaccessibile
incorporeo, ancora ci illumina
lo sguardo! Non ancora mi stanco;
un passo ancora mi disegno
al brillare della fiamma.
Avevo, una volta, un cielo alto come l’abisso,
faceva nell’eco cantare le parole;
ma ora anche il canto, come il suono,
mi racconta la sua storia.
Mistica liberata, non tace ma sa ascoltare.
V
Filo d’erba, corazza di corteccia, linfa
di sangue, cielo e stelle tessute d’oceano
e un lontano altrove.
Tela di ragno, soffio argenteo,
riverbero d’ombra, non m’ingannare
se ti cerco, se ti offro parole
più di quelle che sai dire.
Nei miei vincoli ti scruto
e t’attendo, onda di marea,
sciame nato dal toro,
anima familiare anche alle ossa,
devote alla morte,
benevolo sorriso, che io possa trovarti
laddove tu sei, laddove io sono.