Marta Agudo, Sacrificio

COLLANA ENCINA – POESIA SPAGNOLA
Marta Agudo, Sacrificio. Antologia
Traduzione e introduzione di Chiara De Luca
ISBN: 979-12-81236-41-7

pp. 266, € 15

Perfino gli scrittori oggi lanciano messaggi. I messaggi devono essere positivi, per piacere all’algoritmo, ovvero agli editori.

Bisogna essere performanti. Anche nella malattia e nella morte.

Si dice che i lettori vogliano il lieto fine. Se proprio vuoi morire, devi farlo come si deve. Solo così meriterai un bel funerale.

Quando si muore si muore soli non si può più dire, figuriamoci cantare.

Nella finzione dell’odierna retorica bellica della malattia, il malato è un guerriero impavido, un eroe senza macchia e senza paura, che il dolore non può spezzare. È così che ci indica la strada.

La letteratura distopica sta passando di moda perché siamo nel mezzo della più spaventosa delle distopie. Tutto è narrazione – distorta – in cui siamo immersi. Ognuno può avere la sua piccola o grande claque di spettatori. L’essenziale è narrarsi dentro gli schemi che non violano le regole della community.

Chi non può e non vuole fare l’eroe si ritrova ancora più solo nel dolore.

Ma c’è un posto in cui la verità a volte trova ancora rifugio.

È un posto silenzioso, lontano dai pulpiti, dai palcoscenici, dalle luci dei riflettori e dalla nevrosi della spettacolarizzazione mediatica.

È un labirinto che non ha bisogno di uscita. È una voce che non ha nulla da insegnare. Che canta per cantare.

È la poesia, quella vera, sempre più rara.

La poesia non è vincolata all’happy end. Tanto non vende comunque. Tanto fa paura uguale. Per questo la morte la può pronunciare. Può dire la rabbia, la disperazione, l’inconsolabile dolore di chi muore, l’angoscia senza nome, con tutta la lucida dignità del dolore di finire.

Nessun libro dovrebbe avere epilogo, scrive Marta Agudo al termine di questa raccolta, che riunisce Historial (2017) e Sacrificio (2021), i due libri in cui la poetessa ripercorre il calvario della malattia che ha tenuto la sua vita in pugno per cinque anni.

Io stessa avrei voluto che questo libro non avesse mai fine.

Invece Marta Agudo l’ho incontrata in vita soltanto nelle parole di Jordi Doce Chambrelan, suo compagno e ottimo poeta a sua volta, mentre l’accompagnava verso la fine della sua vita.

Marta se ne è andata per un cancro al seno all’età di 52 anni, dopo cinque anni di calvario. Io sono rimasta sola con le sue parole, con l’immensa gratitudine del lettore che non cerca una falsa consolazione, ma una reale e profonda condivisione; che non si aspetta “la maschera della salute”, ma i “giorni di morfina in ospedale”.

Questo libro è felicemente  libero da messaggi motivazionali e storie esemplari. Marta Agudo non ci indica il modo giusto di morire. Perché morire è ingiusto. Morire a 52 anni è assurdo e crudele. È un sacrificio senza senso né giustificazione, come quello dei 13 giovani destinati alle fauci insaziabili del Minotauro, figura mitologica che da fil rouge nel labirinto di questo libro senza scampo, di cui la poetessa conosceva l’uscita ben prima di scriverne la fine.

5

Centro o periferia. Dove si mesce il respiro? Ogni centimetro vive la sua massima espressione e sulla barella l’ampiezza è materia di riconquista. Centimetro uno. Questa falange che ieri non emetteva alcun segnale…

Ogni ago un centro. Aghi che imbastiscono per ricordarti che nessuna rete potrà sostenerti. Disponibilità della carne fino a dove. Confine da riscrivere ora dopo ora.

Non è uno stato, è una condizione.

Essere malata.

Puro centro, puro millimetro dove consentire l’umano. Anche la felicità di questa voce che accompagna.

15

Abito nella circoscrizione della paura. Non si può chiedere di più a questa somma di atomi sparsi: un ago e la sua rivincita, un’altra chiamata alla porta, l’impeto del medico nel suo curriculum.

Basterebbe tornare indietro fino a quando, arrivare al punto in cui cominciò tutto e saltare, serenamente, con la fermezza dell’uccello in via d’estinzione.

24

La maschera della salute o giorni di morfina in ospedale? La dottoressa non risponde a quella prima immagine o breccia blu che mi perseguita. Qui i pannolini sono identici per i neonati e per quelli prossimi a morire. Commessure di ghiaccio, meccano dove nutriamo la speranza di far capire, come il cucciolo alla madre, questo pogrom energico e senza dèi. Al massimo le sillabe del danno, il lamento viziato o il territorio noioso di bruchi ascendenti… Non vuoi confessarti, non cedere semplicemente a questo dolore che si diluisce, origina e grida la sua bolla accesa. Neppure l’arca di Noè volle sapere del mare…

27

Passa. Entra senza cura. Si dice che la gente in coma non senta, anche se degusta il sale tra i molari. Dicono che non sentano, ma conosco quelle melodie e fiaccole che si addensarono in un minuto senz’aria. Ricordo uno sguardo, un rimprovero forse: «Ecco i tuoi organi: assembla tu il Lego per vedere cosa ti viene in mente».

41

Solo l’idea di potermi ammazzare mi aiuta a vivere. Pozzanghera senz’acqua, luce che domina la possibilità del soffocamento. Luce bianca che mi aiutasti a prendere aria e ora intralcio per cedere con levità alla fine, quasi quasi scivolando, per questa collera inaudita e ampia senza parentesi…

NESSUN libro dovrebbe avere epilogo. Tuttavia, scrivo solo qualche parola per collegare l’idea di sacrificio con la consegna dei quattordici giovani che ogni anno devono essere consegnati al minotauro da Teseo, reincarnato nel suo mito. Non pensavo qui a cerimonie rituali sanguinose, ma a un grande fossato azzurro dove si effettua il lento baratto. Mi viene in mente il movimento in entrambe le direzioni: persone che offrono le proprie mani per poter nascere e persone nuovamente spinte da Asterione verso l’acqua che emerge con la rottura del ghiacciaio. Cibo o semplice ricreazione. Un’immagine che contiene tutta la vita e il suo danno, tutta la perdita e il piacere del respiro. Commessura e scafo.

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