Stefano Serri, Custodi di metamorfosi

𝐂𝐨𝐥𝐥𝐚𝐧𝐚 𝐒𝐠𝐮𝐚𝐫𝐝𝐢 – 𝐒𝐚𝐠𝐠𝐢𝐬𝐭𝐢𝐜𝐚
𝐒𝐭𝐞𝐟𝐚𝐧𝐨 𝐒𝐞𝐫𝐫𝐢, 𝘾𝙪𝙨𝙩𝙤𝙙𝙞 𝙙𝙞 𝙢𝙚𝙩𝙖𝙢𝙤𝙧𝙛𝙤𝙨𝙞
𝐏𝐫𝐞𝐟𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐨 𝐁𝐢𝐧𝐢
𝐂𝐨𝐧 𝐮𝐧𝐚 𝐩𝐫𝐞𝐦𝐞𝐬𝐬𝐚 𝐝𝐢 𝐒𝐭𝐞𝐟𝐚𝐧𝐨 𝐒𝐞𝐫𝐫𝐢
𝐈𝐒𝐁𝐍: 𝟗𝟕𝟗-𝟏𝟐-𝟖𝟏𝟐𝟑𝟔-𝟑𝟐-𝟓
𝐩𝐩. 𝟏𝟗𝟓, € 𝟏𝟓

𝑺𝒄𝒓𝒊𝒕𝒕𝒊 𝒄𝒓𝒊𝒕𝒊𝒄𝒊 𝒔𝒖

𝐆𝐨𝐥𝐠𝐨𝐧𝐚 𝐀𝐧𝐠𝐡𝐞𝐥, 𝐒𝐚𝐧𝐝𝐫𝐨 𝐁𝐚𝐫𝐫𝐞𝐥𝐥𝐚, 𝐉𝐨𝐚̃𝐨 𝐋𝐮𝐢́𝐬 𝐁𝐚𝐫𝐫𝐞𝐭𝐨 𝐆𝐮𝐢𝐦𝐚𝐫𝐚̃𝐞𝐬, 𝐉𝐮𝐥𝐢𝐚 𝐁𝐞𝐥𝐥, 𝐑𝐞𝐧𝐳𝐨 𝐙𝐚𝐜𝐜𝐚𝐫𝐢𝐚 𝐁𝐨𝐬𝐬𝐢, 𝐖𝐢𝐥𝐥𝐢𝐚𝐦 𝐂𝐥𝐢𝐟𝐟, 𝐂𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚 𝐃𝐞 𝐋𝐮𝐜𝐚, 𝐆𝐢𝐮𝐬𝐞𝐩𝐩𝐞 𝐃𝐢 𝐓𝐚𝐫𝐚𝐧𝐭𝐨, 𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐄́𝐥𝐮𝐚𝐫𝐝, 𝐌𝐢𝐜𝐡𝐞𝐥𝐞 𝐆𝐚𝐧𝐠𝐚𝐥𝐞, 𝐒𝐚𝐢𝐧𝐭-𝐃𝐞𝐧𝐢𝐬 𝐆𝐚𝐫𝐧𝐞𝐚𝐮, 𝐀𝐧𝐧𝐚 𝐆𝐫𝐢𝐯𝐚, 𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐇𝐞𝐧𝐫𝐲, 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜̧𝐨𝐢𝐬 𝐉𝐚𝐜𝐪𝐦𝐢𝐧, 𝐑𝐢𝐜𝐡𝐚𝐫𝐝 𝐉𝐚𝐦𝐞𝐬 𝐉𝐨𝐧𝐞𝐬, 𝐘𝐚𝐧𝐧𝐢𝐬 𝐋𝐢𝐯𝐚𝐝𝐚𝐬, 𝐑𝐨𝐝𝐫𝐢𝐠𝐨 𝐆𝐚𝐫𝐜𝐢𝐚 𝐋𝐨𝐩𝐞𝐬, 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐨 𝐌𝐚𝐫𝐚𝐥𝐝𝐢, 𝐋𝐨𝐮𝐢𝐬𝐞 𝐌𝐨𝐫𝐞𝐲 𝐁𝐨𝐰𝐦𝐚𝐧, 𝐘𝐯𝐞𝐬 𝐍𝐚𝐦𝐮𝐫, 𝐌𝐢𝐜𝐡𝐞𝐥𝐞 𝐍𝐢𝐠𝐫𝐨, 𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐎’𝐃𝐨𝐧𝐧𝐞𝐥, 𝐀𝐧𝐭𝐨𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐏𝐚𝐥𝐞𝐫𝐦𝐨, 𝐉𝐞𝐚𝐧-𝐁𝐚𝐩𝐭𝐢𝐬𝐭𝐞 𝐏𝐚𝐫𝐚, 𝐆𝐢𝐚𝐧𝐜𝐚𝐫𝐥𝐨 𝐏𝐞𝐫𝐚, 𝐄𝐫𝐧𝐬𝐭 𝐏𝐞́𝐩𝐢𝐧, 𝐉𝐞𝐚𝐧 𝐏𝐨𝐫𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞, 𝐀𝐀𝐧𝐝𝐫𝐞𝐚 𝐒𝐚𝐥𝐭𝐢𝐧𝐢

Se il critico letterario, nei casi in cui maggiori sono la vanità e la voglia di addomesticare il testo, è un archeologo che scava con l’attrezzatura migliore e, talvolta, scava più per dimostrare come si utilizza l’attrezzatura che per trovare qualcosa, il poeta che scrive di poesia può essere uno che scava a mano, distruggendosi le unghie e andando a istinto, uno per cui tutto sta nello slancio.
𝐶𝑢𝑠𝑡𝑜𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑡𝑎𝑚𝑜𝑟𝑓𝑜𝑠𝑖 è un pezzo notevole di quel particolare genere letterario. Che cosa sia, non è mio compito in queste righe dirlo: per fortuna ci sono la sinossi, l’indice e le prossime pagine. Io posso occuparmi, da poeta che scrive di un poeta che scrive di poesia, di come si esce dalla lettura di questo prosimetro di legami e amicizie letterarie, reali o per il tramite del testo. Innanzitutto con l’idea che solo nella letteratura Stefano Serri si senta allineato al flusso della vita. Questa è l’acqua, aveva detto in un memorabile e stracitato discorso David Foster Wallace; questa è l’acqua, o, meglio, questa è la mia acqua, e qui nuoto a mio agio, sembra dire Stefano Serri a ogni riga, ogni verso. Tanto che il lavoro del prefatore sembra diventare solo un pretesto. Ce ne accorgiamo presto, più o meno dalla terza parola: ogni prefazione smette di essere solo una prefazione, ma diventa un’altra partita, l’ennesima, al gioco infinito di dare una definizione di poesia.
C’è, infatti, una forma ricorrente in questi pezzi, ed è il fatto che la prima parte sia quasi sempre un micro-apologo della poesia, una riflessione 𝑖𝑛 𝑛𝑢𝑐𝑒 sul fare e sul leggere poesia, sul pensarla e sul viverla. L’autore che si è affidato alle cure di Serri porterà pazienza qualche riga: prima bisogna assistere allo spettacolo di un guizzo, di un colpo d’ala che sempre il Serri prefatore, con sensibilità non comune, riesce a tirare fuori dal nulla, come fanno gli atleti talentuosi strappando l’applauso. Va a finire così che gli incipit sono spesso bellissimi e quasi rubano la scena alle poesie. Dico 𝑞𝑢𝑎𝑠𝑖, perché poi Serri non soffre di manie di protagonismo e torna sul testo che ha letto, curato o tradotto (è fondamentale l’ultima sezione di 𝐴𝑐𝑐𝑜𝑚𝑝𝑎𝑔𝑛𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖, ovvero di prefazioni alle traduzioni che Serri stesso ha eseguito) e scava con le mani, in un modo gentile che non turba il testo, ma quasi lo coltiva. Ecco, allora forse più che l’archeologia può venire in mente il giardinaggio: nelle sue prefazioni, Stefano Serri semina il terriccio e, sulla poesia altrui, fa crescere fiori, arbusti, alberi.
Proprio per questa capacità di Serri di cogliere l’occasione di aggiungere un proprio tassello di poetica nell’atto di mettersi al servizio del testo, 𝐶𝑢𝑠𝑡𝑜𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑡𝑎𝑚𝑜𝑟𝑓𝑜𝑠𝑖 non è una celebrazione dello sguardo critico del suo autore, ma la ricomposizione di un disegno disseminato negli anni, nelle letture, negli incontri e nelle proposte. Un’attività così intensa e capillare merita un punto di raccolta e di riferimento, merita una verifica e merita una riproposizione organica, perché oggi sono pochi i poeti – e forse anche i critici – che si esercitano con tale impegno, costanza e gratuità sulla poesia degli altri. 𝐶𝑢𝑠𝑡𝑜𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑡𝑎𝑚𝑜𝑟𝑓𝑜𝑠𝑖 è, allora, un piccolo monumento alla generosità.

𝐷𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑓𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑀𝑎𝑟𝑐𝑜 𝐵𝑖𝑛𝑖

Nelle pagine che seguiranno, diverse lingue e paesi toccati, poeti marginali, nessun nuovo canone, incontri occasionali dove penso di avere ogni volta imparato qualcosa per me – e anche per voi che non c’eravate. Nello scrivere di libri, ho fatto come a teatro, soprattutto nel rapporto con il tempo. La maggior parte delle prefazioni della prima parte (dove credo di aver espresso al meglio quelle due o tre cose che ho da dire sulla poesia) erano “a lettura unica”, dall’inizio alla fine, se possibile senza interruzioni, come un romanzo in versi ogni volta. Poi scrivevo, subito, cercando sempre quel tu che unisce scrittore e lettore (e il lettore del libro diventava anche il lettore della mia prefazione, quindi un tu a tre teste).

Dopo, la rilettura, le correzioni, le conferme. Non puntavo a saggi analitici, né a profili estetici: spesso il testo che leggevo era il primo contatto con un dato scrittore. Un approccio spontaneistico, quindi, superficiale, da dilettante, sprovveduto, supponente, provinciale, ecc. ecc. Certo. I libri degli altri erano un pre-testo, non perché quello che avevo da dire fosse più importante di loro, ma perché è inutile fingere. Il critico, lo dicevo, è solo, è nel vuoto: il libro che legge, per quanto sia aperto, non è suo, non è lui. Lui può fare solo altro, solamente bonus-track, omaggi e cadenze, frutti staccati da un albero e appoggiati su un altro; non chiavi, per una porta di casa d’altri, ma piccole sedie di vimini, dove sedersi e guardare, da lì, quella casa non sua: chissà se si riesce a capire dove bussare, chi ci potrebbe far entrare.

Diverso è il caso dei testi nell’ultima parte del libro, che riguarda autori che ho anche tradotto. In questo caso la vera critica è nella traduzione, il saggio che lo accompagna vede nell’autore non una casa, ma un mondo intero, l’unico mondo, nell’arco del libro tradotto, che abbiamo a disposizione (penso a Saint-Denys Garneau e Éluard, soprattutto, autori che hanno terminato il loro arco di tempo in terra). Alcuni testi, nel momento in cui scrivo queste righe, sono nati per libri non ancora pubblicati. Ma l’autonomia di queste mie pagine rispetto ai libri, come dicevo, mi ha convinto a pubblicarle lo stesso, con la speranza di aggiungere, magari all’ultima revisione delle bozze, una data, un editore.

A completare il volume, come intermezzi, i due tempi di 𝐹𝑒𝑠𝑡𝑖𝑣𝑎𝑙, una ventina di poesie scritte su/per altri poeti (ho tolto i testi più arcigni o apertamente cattivi, dato che i poeti san provvedere alla bile assai bene da sé). Credo che queste poesie mostrino, se ce ne fosse bisogno, che non sono un professore e nemmeno un re-censore: non divido buoni da cattivi, non separo la pula dal grano, le classifiche le lascio a chi ama riempire di numeri la noia. Sono solo uno che scrive, poesie e non.

𝐷𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑆𝑡𝑒𝑓𝑎𝑛𝑜 𝑆𝑒𝑟𝑟𝑖

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