Henrik Nordbrandt, La casa di Dio

Collana Alfabet – Poesia nordica contemporanea
Henrik Nordbrandt, La casa di Dio
ISBN 978-88-96263-69-3
pp. 90, € 12

Ciò che caratterizza La casa di Dio rispetto alle altre raccolte di Nordbrandt degli anni Settanta è un grado non insignificante di ascesi linguistica. In quest’opera il volume delle metafore arabeggianti e del pathos orientale si abbassa, e vi compaiono invece questi brandelli spesso piccoli, un po’ staccati di poesie, variazioni di un vocabolario accuratamente limitato, gettate con levità sulla carta, come gli esercizi di vuoto che poi sono. Poesie fugaci, come fossero appena riuscite a fissarsi sulle pagine. «Nella Casa di Dio c’è sempre vento […] È difficile trattenere le cose / abbastanza a lungo da comprenderle bene». Il tono nomade, errante, tutta questa sensazione di corrente caratterizza le poesie del volume, che indicano verso molte direzioni, ma si lasciano appena raccogliere in una suite con sotto un racconto accennato.
Ciò che raccoglie le poesie è anche il luogo e la casa, motivi centrali nella produzione di Nordbrandt. Il luogo come soggiorno temporaneo, come elemento di un eterno movimento tra quelli che in un’altra raccolta degli anni Settanta vengono chiamati Partenze e arrivi. L’arrivo al luogo è una promessa. Ma il luogo cattura, come cattura la Casa di Dio. I ricordi diventano sempre di più e rendono pietre le parole, perciò prima o poi bisogna partire. La partenza è un’altra promessa. Tra la partenza e l’arrivo esistono tentativi falliti di fermarsi e calmarsi. La Casa di Dio è uno di quei tentativi, è un esperimento modernista con il vuoto e la pienezza, un lavoro per ridurre il mondo, scrivendo, al nulla e all’essere.

Dalla Postfazione di Dan Ringgaard

Le pareti della Casa di Dio sono solo pareti,
finché non sono abissi
e le loro finestre solo finestre
finché non sono lapidi.

Le cisterne sono solo cisterne
finché non sono deserti
e le stelle solo stelle
finché non sono domande.

Solo appoggiati alle pareti è possibile
bere l’acqua e osservare
le stelle attraverso le finestre aperte
senza chiedere il motivo della sete.

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