Yves Namur, Le labbra e la sete

Collana Orly – Poesia belga contemporanea
Yves Namur, Le labbra e la sete
Traduzione e introduzione di Chiara De Luca

ISBN: 979-12-81236-19-6
pp. 170, € 15

Per un poeta che è anche un medico, come Yves Namur, che viene a contatto ogni giorno con il dolore, con il lato più fragile e indifeso della natura umana, la professione ufficiale costituisce un valore aggiunto, piuttosto che un impedimento alla ricerca e all’evoluzione letteraria. È forse anche dalla consuetudine alla cura e all’accudimento del corpo che nasce la paradossale concretezza di questi versi tanto raffinati ed eleganti; è dalla necessità del distacco dalle facili emozioni e dal sentimentalismo volgare che nasce il dignitoso equilibrio di questo volo immobile e radente, che si leva al di sopra di ogni ammiccamento ai facili sdilinquimenti del poetese.

Ma non pensiamo di trovare in Namur tecnicismi, tecnoletti, o parole mutuate dal linguaggio della sua professione, come spesso avviene, con esiti spesso anche interessanti. No, la lingua di Namur è solo quella del bambino che ridispone con estrema serietà e concentrazione i mattoncini della lingua che ha inventato, rimodellando quella dei Padri.

Les lèvres et la soif è composto da due poemi strettamente legati tra loro. Il Leitmotiv, il fulcro di questo coraggioso volo di parole è l’uccello, che si posa sulle tue labbra, lettore, e su quelle del poeta.

Come un colibrì, la poesia porta la parola di labbra in labbra, per placare l’arsura di “bocche terrose” assetate dalla siccità del reale.

Al di là della presunzione di molti esseri umani di ritenersi superiori e più evoluti rispetto agli altri animali, il volo degli uccelli è un vero e proprio capolavoro di cinetica e ingegneria della natura – oltre che di estetica ed equilibrio – inarrivabile per l’uomo. Il volo degli uccelli è una delle cose che – più o meno segretamente – tutti invidiamo, una delle cose che ricorrono più di frequente nei nostri sogni, nelle nostre fantasie, nelle nostre proiezioni, nella trasposizione metaforica che facciamo di noi. Abbiamo tutti nostalgia del volo. Vorremmo tutti seguire l’uccello nelle sue peregrinazioni nel cielo. Avvertiamo tutti il dolore nel punto in cui le ali ci sono state strappate, o dove non hanno avuto modo di spuntare. Perché il cielo è l’altrove di una libertà vera che in terra non si può dare, o è data a un prezzo tanto caro da rendertene schiavo.

Dalla prefazione di Chiara De Luca

un uccello si è posato oggi sulle tue labbra,

come fosse un infimo tremolio di paglia
o della polvere bianca,

come fosse il respiro di un sogno
o un carbone di neve,

un uccello si è così posato sul bordo del vuoto,
sul bordo del pensiero,

giusto sul bordo del silenzio,
giusto sul bordo di una poesia socchiusa,

 

 

 

 

 

 

vuoto, o vuoto terribile

che porti in fondo alle braccia il canto degli angeli,
tutti i silenzi e tutto il popolo delle anime erranti,

o vuoto,
tu che porti anche il tumulto degli uomini, le lacrime
e le corone di dolori,

apriti,

perché tu non sei nient’altro che l’inizio,
la porta oscura e spalancata del tempio,

 

 

 

 

 

e tu, bella sperata della casa,

che il silenzio di una poesia ti avvolga tre volte
o anche mille volte se può farlo,

che il tuo silenzio adesso ci afferri
come fanno il gelo e l’inverno nascenti nelle nostre mani,

che c’impedisca di sentire
e che ci faccia capire le cose,

che discenda nel pozzo tenebroso
e che salga anche sulla scala del cielo,

 

 

 

 

 

che il silenzio ti abiti e che ci possieda,
che tu capisca ciò che ancora qui non si capisce:

un canto d’uccello,

un canto quasi impercettibile, torbido e leggero
come sono le foglie morte e l’aria espulsa dai tuoi
polmoni,

come a dire un alito d’essere
o una promessa venuta dal lontano degli uomini,

come a dire una vela, un sospiro
o una prateria di neve,

[…]

 

 

 

un uccello si è posato oggi sulle mie labbra,

come se fosse luce,
come se fosse un lucernario
venuto da non si sa dove né come,

dalla luce
che non è a portata delle mie mani ancora assetate

ma era già dentro di me
senza che lo sapessi veramente,

fuori dal tempo,

ma anche nel tempo degli amori
e delle labbra socchiuse,

 

 

 

 

 

luce, o luce cantata
nella poesia in basso,

nel prato delle tenebre
e nel verbo dei muti,

tu che ti sei posata un giorno
su labbra che si credevano reali,

eri venuta da nessun dove
come lo pensavo allora

o c’eri da sempre,

silenziosa e sepolta
nel cuore folgorato degli uomini,

luce insospettata forse
ma già presente,

 

 

 

 

 

o luce del risveglio,

tu
che canto ora a squarciagola
nella poesia,

tu che ti sei posata un giorno
su labbra nude e senza vita

come fece un tempo l’uccello
sul bordo della fontana prosciugata,

avevi misurato
quanto era grande la mia sete,

quanto era reale il mio desiderio
di camminare con il coro degli uomini,

 

 

 

 

 

o luce,

tu
che ora ci avvolgi gli occhi di mandorle
e le ore piene,

avevi indovinato
il peso di queste parole tanto greve
nelle nostre bocche spalancate:

solitudine
e solotudine,

questa parola-porpora che cantammo
al di sopra, ben al di sopra
della spina
*,

l’avevi davvero indovinata,

[…]

* Paul Celan

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