Snáthaid Mhór – Poesia irlandese contemporanea
Peggy O’Brien, Spiando i ranocchi
ISBN 978-88-96263-20-4
pp. 178, € 12
“Casuale come atomi di polvere, mi posavo / su questo e quello, / un dipinto in una cornice / rassicurante, seta troppo fine da toccare”… È così che si muove Peggy O’ Brien tra le cose, sulle cose: lieve, discreta, si posa e spia, per conoscere e scoprire, facendosi parte del reale, assimilandosi al proprio sguardo che abbraccia e scopre il mistero di un quotidiano, giorno dopo giorno sempre nuovo. E nel quotidiano la poetessa si specchia e infrange, si riconosce, o più spesso si scopre un altro volto, segnato, fittamente scritto di ricordi e dolori, eppure fiero, forte. Come fiera è la poetessa nell’affrontare a viso scoperto i propri drammi esistenziali, bevendo fino in fondo anche il vuoto e il vino amaro dell’errore, commesso per amore, gioventù, o purezza sempre intatta che non cesserà di errare, ma neppure di apprendere – dal riflesso mutevole del proprio sguardo – i propri più autentici tratti/confini. Confini che talvolta occorre valicare, con un salto nell’oscuro, nell’ignoto, in direzione di una realtà interiore trasfigurata che si fa mondo estraneo all’esterno e apre le braccia per accogliere, o strozzare.
C’è nella poesia della O’ Brien il desiderio struggente – misto alla paura mai invalidante – di ricomporre i frammenti del Sé in un Tutto mai armonico, mai statico, bensì sempre mobile nel segno di una rapida metamorfosi di presente ed esperienza, vissuti, rivissuti e proiettati in qualche altrove mai idilliaco né ideale, e però sempre territorio d’inesausta esplorazione.
Dalla Prefazione di Chiara De Luca
Malamute
Maltempo mandato a temprarci.
Stanotte la porta che dà a Nord
è socchiusa e la fiamma ossidrica
spara a raffica da una fessura.
Ora sì sappiamo che zero
è più di un mero concetto,
non nulla quando può esserci
meno di questo nulla perfetto,
meno la nostra mano alla bocca,
a tagliare la tosse di un’esistenza,
stretta tra un termometro
e l’altro, sangue e mercurio.
E nel mentre questo piccolo
conforto: il malamute là fuori sul retro
che sembra avere sempre nostalgia
dell’Artico, è proprio a casa,
mentre leva i suoi ululati franti
al viso umano della luna,
emettendo guaiti rompighiaccio,
per disperdere in frantumi quel che ha dentro.