Jean Portante, La strana lingua

Collana Sula – Poesia del Lussemburgo
Jean Portante, La strana lingua
Prefazione di Stefano Serri

Traduzione di Chiara De Luca
ISBN: 979-12-81236-18-9
pp. 234, € 15

Qual è la casa, qual è la lingua di Jean Portante? Lo dico subito e diretto: una casa esplosa, una lingua ritrovata.

Esplosa, la casa, fino a farcene vedere, dalle fondamenta all’oltre-tetto, tutto ciò che la compone, senza trascurare ciò che connette le parti, ciò che conferisce una vita – meccanica, idraulica, elettrica – all’organismo casa: basta pensare a quanti tubi e rubinetti affiorino nel libro. In questa casa sezionata, sbuca la vita, come un oggetto in 3D su un piano bidimensionale, un qualcosa che spunta per dire al lettore che sbircia almeno una parola.

Un’analisi che non si radica nell’architettura d’interni o nell’urbanistica, ma che sa d’anatomia, dalla gestazione all’enumerazione degli organi (fin quasi, talvolta, alle singole cellule). Perché raccontare una casa lo si fa con «parole d’amore a tre teste» ed è un racconto che passa dai corpi che l’hanno concepita e attraversata, alla ricerca di un grande corpo perduto, che sia corpo di nonno o sorella o di amico: una casa-qualcuno che ci parla di un noi.

Come scriverla, allora, una casa? Il primo ingrediente sono i ricordi, mescolati e cotti insieme, un piatto di memoria, un pasticcio di reminescenze, una ricetta tramandata o riscoperta proprio a partire dall’intreccio della lingua: una lingua  nostra che «ha due anime e due finestre». Se dico ingredienti, ricetta, pasticcio, non è per accattivarmi la simpatia di chi legge con una metafora bonaria, ma perché il poeta stesso parla de «la cucina la nostra macchina da nascita». Quella di Portante non è una poesia da scrivania, scritta contemplando dalla finestra alberi bucati e giardini preadamitici. Non è una poesia che arreda, che nasce in uno studio, ma sa di sugo, di sugo buono al mio palato, combinazione di verdure e lavoro, natura e arte, qualcosa che non si può ripetere ogni volta uguale (la ricetta del ragù: ogni rezdora ne ha una diversa) e che non è e mai sarà uguale a quello della nostra mamma. Poesie da sugo: non è una nuova etichetta critica, ma è questione festosa e serissima, questo sugo, una di quelle cose che cambia il destino di una domenica; è consolazione, è un motivo per trovarsi, è qualcosa che potremo scaldare (ci potrà scaldare) il giorno dopo. Possono perdersi, nel sugo, anche le lacrime di chi mescola. Ma «ciò che cade non è l’anima».

 

Dalla prefazione di Stefano Serri

UNA MADRE E UN PADRE CHE FABBRICANO
lo zucchero o il sale. desiderando l’estate bianca e i suoi
ponti al di sopra di fiumi un po’ più lunghi.
entrambi i piedi
su un frammento di terra corretta.
l’orologio al polso per rilevare il battito.
un mazzo di fiori in modo che non appassisca
la voglia di partire o di restare
o di partire di nuovo.
le sue foglie che scendono già verso il mattino.
come un lavoro precoce
di polvere bianca ancora da fabbricare.

 

 

 

 

LA LOCOMOTIVA DEL SECOLO
manda il suo vapore
e le stazioni sono a stento visibili.
il carro e i buoi tendono a girarsi
sulla statale diciassette.
a volte la nebbia non ha bisogno
della nostra compassione.
s’inorgoglisce della parola che trova e pone
come un’ostia sulla nostra lingua.
dico noi e nostra perché la mia
ha due anime e due finestre.
ci mangiamo a vicenda.
ci mettiamo cappotti bianchi.
cadiamo tutti soli in un sonno
senza fondo ed estraiamo il minerale della
nascita.

 

 

 

 

CHI PUÒ DIRE
che non torni anch’io da lontano.
che non sia morto per strada.
che non abbia bevuto il vino mortale
sorvolando il percorso dell’uccello
e delle storie rubate.
perché un uccello che se ne va
non ha il diritto di tornare vivo.
come se ci fosse nascosto dietro
ogni tronco di mandorlo un cacciatore
pronto a fare fuoco.

 

 

 

 

MAMMA DISEGNA UNO SPAVENTAPASSERI
o un albero coi vestiti lunghi
contando i piccioni
in mezzo al giardino.
insegna loro a scrivere lettere.
gli uccelli non hanno paura di lei.
si siedono sulle sue spalle vuote.
agitano dei fazzoletti
quando se ne rivanno.
la lasciano sola in inverno.
quelli che se ne vanno non sono
come quelli che sono tornati.

 

 

 

 

QUELLI COME ME PER ESEMPIO
trattengono il respiro perché lassù
nel cielo passa un cuore vuoto
cosa sanno del corpo del violino incastrato
tra il mento e la spalla. cosa sanno
del vento del nord che sa far parlare gli alberi
e le radici che li trattengono nel terreno.
catene più dure della più dura delle partenze.
quando sbatti la porta fai
almeno in modo che un piccolo pezzo
del tuo cappotto resti all’interno.
è un lembo di notte che lasci
cadere ai miei piedi. un tappeto su cui
cammino come per arrivare all’inverno.

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