Collana Antracite – Narrativa
Marie von Ebner-Eschenbach, Inespiabile
Traduzione e introduzione di Chiara De Luca
ISBN: 979-812-81236-24-0
pp. 288, € 15
In un panorama culturale come il nostro, in cui il “dibattito” pubblico è ridotto alla contrapposizione di fazioni contrastanti e parimenti al servizio del potere, dove imperversano gli scontri di tifoserie a colpi di slogan funzionali a una visione manichea dell’esistenza e a una biforcazione dualistica del pensiero, avremmo estremo bisogno di uno sguardo onesto e oggettivo, imparziale e intelligente come quello di Marie von Ebner-Eschenbach, di una penna acuta, ironica, tagliente come la sua, che descrive con estrema lucidità le debolezze umane e le contraddizioni della società, senza favoritismi né concessioni per il proprio ceto e genere di appartenenza, senza risparmiare nessuno, in fondo neanche se stessa.
Marie von Ebner-Eschenbach è una profonda conoscitrice dell’animo umano e utilizza la propria esperienza per creare personaggi a tutto tondo, dalla personalità complessa e sfaccettata, che si va caratterizzando di pagina in pagina mediante i loro gesti e le loro parole, in assenza di un superiore giudizio autoriale. La società del tempo è presentata nel suo complesso, con i suoi difetti e i suoi stupori, con le sue bellezze e i suoi orrori, senza ipocrisie né infingimenti. Ebner-Eschenbach descrive in modo realistico e minuzioso la vita della nobiltà austriaca dell’Ottocento, tra feste, balli, battute di caccia, e le modalità con cui entra in contatto e in contrasto con la vita del popolo, abbracciato con uno sguardo d’amore che è ampio e al contempo impietoso, privo della paternalistica indulgenza o superiore accondiscendenza cui ci ha abituato tanta letteratura.
I personaggi di Irreparabile sono straordinariamente vivi e si sottraggono a ogni schematizzazione e tipizzazione. Le donne sfuggono alla visione dicotomica del femminile che tutt’ora ci perseguita e, al pari degli uomini, emergono nella loro imprevedibile complessità di individui.
Ebner-Eschenbach si aspetta grande attenzione da parte del suo lettore, gli chiede di non distrarsi neppure per un istante, per non smarrire il senso più profondo della storia o il godimento estetico di uno scorcio di natura, di un vertiginoso panorama. Le descrizioni paesaggistiche sono piccoli poemi in prosa, caratterizzati da scelte lessicali precisissime e puntuali, da un andamento armonioso e musicale. I dialoghi sono confronti vivaci e incalzanti, efficaci e coinvolgenti. Le vicende si susseguono senza tempi morti, le scene cambiano molto in fretta, senza transizione. Un attimo di distrazione è sufficiente per perdere il filo o tralasciare informazioni che più avanti si riveleranno essenziali ai fini della comprensione della storia, delle sue premesse e dei suoi antecedenti. Ebner-Eschenbach dissemina il testo di indizi, allusioni, anticipazioni. Molte cose, compreso il segreto della protagonista, sono appena accennate, ad altre si fa soltanto allusione tramite un utilizzo preciso, chirurgico delle parole. A fare da leitmotiv dell’intera storia è il tema della colpa: c’è chi ritiene di avere commesso un errore che la sua coscienza giudica impossibile espiare e che lo accompagnerà fino alla fine. Mentre i veri colpevoli sono assolti dalla propria mancanza di onore.
Chiara De Luca
“È un uomo così riservato e non conclude niente”, confidò alla sua signora.
“Nessuno si occupa di lui. I suoi polsini sono sempre schiacciati e l’altro giorno aveva addirittura il collo della camicia abbottonato al contrario”.
Oltre al desiderio di acquisire il diritto di provvedere ai polsini e ai colletti delle camicie, aveva anche quello molto grande di essere chiamata “La moglie del dottore”. L’eterna signorina Lisette, signorina qua e signorina là, ormai la disgustava, non poteva più sentirlo. “Va’, parlaci tu, digli che voglio prendermelo”, con questa supplica chiudeva regolarmente le sue effusioni di cuore e veniva informata ogni volta che il suo desiderio era irrealizzabile.
Così a Lisette alla fine non restò altro da fare che intervenire direttamente nel proprio destino e in quello del dottore. Una mattina gli chiese di portarla con sé nella sua carrozza, con la quale ogni giorno andava da un paziente nella vicina cittadina; gli disse che doveva fare qualche acquisto natalizio lì.
Weise era pronto a darle un passaggio. “Mi lusinga”, disse, quando Lisette sedette accanto a lui in pelliccia e capuchon. “Dove posso lasciarla?” chiese sorridendo, non per compiacenza nei confronti del suo aspetto esteriore, ma per l’idea che non gli era mai capitato di vedere una persona con una faccia da bambola da fiera così appariscente.
Anche Lisette sorrise. “Pensa già a lasciarmi? Non è affatto bello da parte sua”. Il suo labbro superiore si sollevò e scoprì piccoli denti da topo che erano molto ben curati, ma piuttosto consumati. Divenne sempre più esplicita nelle sue allusioni, e il palo di recinto, con cui faceva cenni, divenne sempre più simile a una clava. Nel dottore, come ammise a se stesso, salì un a certa apprensione, e si allontanò il più possibile da lei.
Lei lo vide come un invito della sua ospitalità a mettersi a suo agio con lui, si appoggiò all’indietro e osservò il suo profilo. Il bordo del cappello sporgente e la punta del naso erano in linea verticale. Bocca e mento, invece, erano bruscamente rientranti, come per rispetto davanti alla protuberanza importante del viso. Fu allora che la maledetta timidezza di cui Lisette voleva liberarsi per sempre quel giorno trovò la sua espressione.
Dopo alcuni discorsi introduttivi, pensò di poter sferrare il colpo. Lo fece (il dottore le rilasciò questa testimonianza quando si fu ripreso dall’attacco subito) con estrema decenza, chiedendogli se non avesse mai pensato di cambiare.
“Certo, certo, una volta anni fa”, sospirò e, senza volerlo, tirò le redini del pezzato docile come un agnello, che subito si fermò, ma al grido: “Allons, allons!” si rimise in movimento.
“E da allora non più?… È un peccato, e poi è anche triste”.
Sbatté furbescamente le palpebre verso di lui, cosa che lo indignò e spaventò. Si sentiva così impotente e così abbandonato a lei in una solitudine infinita. A perdita d’occhio, non si vedeva altro che neve e neve e nulla di vivo a parte il pezzato, alcuni corvi e la donna che gli faceva “avances”.
Parlava molto, e tutto quello che diceva era o lusinghiero per lui oppure per lei, e non gli restava altro che mormorare: “La signorina è troppo gentile”, oppure: “La signorina ha ragione”.
“Un uomo del genere”, diceva ora con dolcezza, “e non ha un focolare”.
“Mi scusi, ne ho, ne ho, oh uno d’ottima, ultima costruzione”.
“Uno familiare, intendo. Un uomo del genere – e non ha moglie”.
“Oh, per favore, per favore – ho anche quella”.
La signorina Lisette si piegò di lato così in fretta che si sarebbe potuto dire che si era gettata di lato. “Lei – lei ha – una moglie?”
“Sì, certo, una bellissima moglie”.
” – Dove?” “Ce l’ho dai suoi genitori. L’ho data in custodia ai suoi genitori”.
“Vale a dire”, corresse Lisette, che all’improvviso aveva perso tutta la sua tenerezza, “l’ha cacciata via? «
“Per favore, per favore!… Non si può prendere una misura così indelicata nei confronti di una donna che si è già resa infelice somministrandole qualcosa di estremamente fatale”.
La sua ascoltatrice si spaventò a morte, pensava al veleno.
Lui sussurrò: “Antipatheia”.
“Gesù! Che cos’è?” gridò Lisette.
“Una sofferenza incurabile e perciò molto perniciosa, perché priva l’uomo della sua più bella illusione, quella del libero arbitrio. – Pensate a una donna animata dalle migliori intenzioni nei confronti del suo coniuge, che nel momento in cui le deve mettere in atto, viene colta dalla tentazione più feroce – gettargli qualcosa sulla testa… e lui solo di rado riuscirà a resistere. – Eppure non incapace di dolci sensazioni – o no! anche se all’interessato non era stato dato il potere di destarle, tranne – a distanza. Più si allontanava da lei, più lei diventava la sua moglie devota. Così un giorno le parlò, appoggiandosi a un poeta: Come sarebbe bello, carissima, se tu, per amarmi di più, ti allontanassi per sempre da me! – Lei lo fece, e da allora conduciamo il più esemplare dei matrimoni. Abbiamo da poco celebrato per lettera le nostre nozze d’argento”.
La signorina voleva esprimere un rammarico un po’ beffardo per questo “genere di relazione” – ma il dottore disse:
“C’è comunque una cosa buona; all’uomo che è già in possesso di una donna, nessuno può più permettersi di prenderne una”.
Lisette fece occhi incredibilmente stupidi e non disse più una parola. Era talmente annientata che fece tutti i suoi acquisti in città senza tirare sul prezzo. Ci vollero tre settimane prima che potesse riprendersi dalla delusione. Poi “la bambina” ridiventò il centro dei suoi interessi e la vittima adorata della sua meschina tirannia amorosa.