Collana Snáthaid Mhór – Poesia irlandese
Eleanor Hooker, D’ocra e di cenere
Prefazione di Giuseppe Ferrara
Traduzione di Chiara De Luca
ISBN: 979-12-81236-11-0
pp. 202, € 15
Questa terza raccolta di poesie della poetessa irlandese Eleanor Hooker è la conferma di una voce nata per riparare la luce (Mending the light, p. 20). Riparando la luce era il primo titolo al quale la Hooker aveva pensato per la presente raccolta, proprio per via dei numerosi riferimenti, sia visivi che simbolici, alla luce.
È la luce stessa a costituire, per così dire, il filo necessario alla sua riparazione, per ricucire un paesaggio tra un mondo interiore infantile fatto di terrore e meraviglia e quello adulto di una infermiera volontaria: la Hooker è timoniere e addetto stampa di una imbarcazione per i salvataggi in mare.
La creatività dipende il più delle volte da forze contraddittorie e concorrenti e si manifesta come un’ombra quando cioè la luce viene bloccata da un oggetto che in qualche modo fa… riecheggiare l’oscurità. Così “ascoltando” questo dialogo fra poesie di luce e di ombra, la Hooker si convince di cambiare il titolo della raccolta in D’ocra e di cenere richiamandosi al verso di un’altra poesia (Quando sogni i morti, p. 51).
L’ocra è un pigmento naturale argilloso della terra che troviamo già nell’arte rupestre del paleolitico, ma l’ocra è anche conosciuta per le sue proprietà curative dovute alla presenza di ossidi ferrosi. Ocra dunque è una parola legata alla guarigione che può intervenire attraverso l’arte o la scienza medica.
La parola ash si riferisce a un albero (ash in inglese vuol dire frassino che nella tradizione irlandese viene definito proprio come “cenere dei morti, spoglia mortale”) ma la parola indica anche ciò che propriamente sopravvive dopo un incendio e anche dopo un dolore. Cenere.
È dunque un’opera di scavo questa raccolta, scavo geologico, paleoantropologico e biologico e nel quale l’analogia terra/corpo, dovunque suggerita, viene palesemente mostrata in Un paesaggio abbandonato alla neve (p. 77), con una inquietante rappresentazione della poetessa che entra nel proprio corpo attraverso un’incisione ed esplora il paesaggio interiore dove le molteplici “…voci/sono echi di una vita che parla ai fantasmi”.
Dalla prefazione di Giuseppe Ferrara
Riparando la luce
Un buio fatto a mano
le pende attorno alla vita
come una gonna di pezza rossa, confezionata
da una sarta la cui specialità
è ingoiare spilli –
e sta di nuovo pensando alla morte.
Canticchiare non aiuta per nulla,
specialmente in chiave minore, specialmente.
Lei piroetta davanti al vetro,
ma non funzionerà – i suoi pensieri
sono ali tagliate che non possono volare.
Indossa l’oscurità come una diceria –
si ritira nel brivido azzurro del silenzio
che supplica il suo mostro, lasciami stare!
Con l’immagine incurante del tagliapietre
è la violenza del no e no.
Ad ogni passo, la loro menzogna impoverita.
La loro indifferenza al piccolo inferno
che affiggono ad ogni albero, ricorda lei.
Non è colpa sua – liberata quando il suo posto naturale
prese fuoco e crollò
E poi nella musica dell’alba,
quando il buio fatto a mano sbarca,
sola, sale sulla sua barca
per remare verso un angolo di gioia,
per unirsi alle sue sorelle riparando la luce
e cantando, sì e sì, sì
***
Tamponamento
i nostri cuori su una pesante catena
fissata a una costola fedele…
— Vasko Popa
Immobile e leggera giace,
tutti i suoi otto anni,
le sue labbra macchiate di blu,
come se avesse banchettato
con bacche estive
E quando la pressione
nei suoi polmoni scende
attiva i soffietti meccanici
che respirano in lei.
E quando ascoltate,
sentite solo un cuore soffocato.
Siete la squadra d’emergenza
riunita intorno al suo letto,
che guarda il chirurgo tagliare
nello spazio
sopra la quinta costola,
per rimuovere un coagulo,
che ti dice di mettere
le mani guantate
intorno al suo cuore.
Senti il suo Dio mio,
e pensi al “Dio” appeso
nel salotto di tua nonna –
dolente e kitsch, a bocca aperta,
col cuore in mano –
sac-rosso, spinato e incandescente.
E con quest’ultima
trasgressione, il minuscolo cuore in mano,
le sue difese critiche sono state violate,
ripetete il nome della bambina\,
Fede, Fede…
Non pregate,
pronunciate parole di richiamo
al suo spirito di uccello,
che si libra, addolorato.
(Tamponamento: compressione del cuore a causa di un accumulo di liquido nel sacco pericardico.)
***
Tutte le mie imperfezioni
I boschi che percorro ogni notte sono illuminati
da tisanotteri, i loro corpi morbidi –
minuscole lanterne che emettono una sottile
luce ora verde, ora gialla.
Gli alberi qui sono creature amichevoli –
proiettano solo le ombre di se stessi.
Sanno cosa cerco
e ondeggiano con piacere quando lo trovo –
un ritratto di tutte le mie imperfezioni.
Vedi il mio vestito, di un magnifico rosso audace,
i miei capelli, un corvo a brandelli; i miei piedi,
caduti e nudi; le mie ali rattoppate;
la mia schiena arcuata; il mio volo incerto –
guardate, questo è ciò che sono, il mio io autentico.
Porto il mio ritratto ai margini della foresta,
per deliziarmene e condividerlo – un grave errore.
sfioro una megera e quando si agita,
non c’è altra soluzione che stare in piedi con gli alberi
e guardare, rimanere in silenzio e osservare.
Le sue mani blu invernano il buio,
e sebbene gli alberi siano onorevoli –
come testimoni, sono muti. Lei mi tocca,
lì, il mio vestito rosso, e lì, i miei piedi nudi,
e lì, le mie ali strappate.
Mi mette una pietra in bocca,
ride quando mi oppongo, poi se ne va.
Nel bosco parlo di dolore senza sosta.
Scavo, calo la tela nella terra indulgente,
la depongo, a faccia in giù, sopra le mie ali tarpate.