Ada Salas, Sacrificio

COLLANA ENCINA – POESIA SPAGNOLA
Ada Salas, Deposizione
Postfazione di Stefano Serri
Traduzione di Chiara De Luca
ISBN: 979-12-81236-42-4
pp. 174,
€ 15

 

Figli e nipoti dell’Apocalisse, come in un nuovo anno Mille, il sentimento di una fine collettiva sembra premerci da ogni soglia. L’astronomia e la Storia, l’ecologia e il genoma, guerre e batteri, migrazioni e bufere: il nulla s’avvicina da molte direzioni. In questo guazzabuglio universale (e che riguarda, oltre a quella umana, forse anche altre specie, nature, ecosistemi) la morte del singolo individuo si riduce forse a un banalissimo e del tutto trascurabile accidente, o è invece il ribadirsi tragico di un’eco che non lascerà, in futuro, una volta compiuta l’estinzione, neppure l’effimero riverbero della memoria? Sulla morte di un singolo uomo (anche se un uomo straripante come Cristo, molto più che moltitudini, molto più che universale, l’uomo per sempre, l’uomo in tutti) raffigurata dal pittor Rogier van de Weyden nel Quattrocento, Ada Salas scrive un intero libro, questa Deposizione. È la contemplazione della morte, ma anche la contemplazione di chi contempla la morte, e del come reagisce, tra psicologia e teologia, tra l’arte mistica e quella fisiognomica, così che ognuno possa trovare il proprio modo per stare di fronte al morire. Non si guardano tra loro, i partecipanti al rito funebre, ignorano la sofferenza dell’altro: eppure esiste «la diagonale il raggio del dolore», come se ci fosse una direzione, come se fosse possibile un uscire dal quadro.

Ma si può, uscire dal quadro? La poesia, almeno lei, ce lo permette?

Si confronta con una tradizione enorme, Ada Salas, accostando il genere del Compianto, una tradizione pittorica, musicale, letteraria che dalla poesia e dal teatro medievale arriva ai giorni nostri, dal laiare di Testori al più composto (ma non meno lancinante) salmodiare di Turoldo, nel Novecento nostro. La scrittura del libro si confronta con questa tradizione, con la musica barocca soprattutto, ma anche con il tempo presente, la cronaca personale, la riflessione estetica sulla rappresentazione del dolore, la variazione lirica, la tentazione epica, i fiori morti, il sangue degli altri. Arriva a trasfigurare anche la forma, slittando dalla raccolta di poesie (istantanee e divagazioni che nella prima parte si succedono come un unico flusso di sguardo sul quadro) verso un vero e proprio libretto per oratorio, con assoli, corali, dove le parole sono rarefatte e anche un solo verso basta per riempire una pagina, per motivare un coro ad aprire bocca. Se nella prima parte si tenta il discorso, nella seconda i materiali sono affrancati, liberi di ripetersi, di esplodere, di perdere nessi e necessità sintattiche; ci sono personaggi, ma nessuna maschera. Teologicamente, si tentano tante strade, ipotesi, deviazioni, ribaltamenti (la Madre che ruba al figlio il suo sommo lamento: «figlio mio / perché / mi hai abbandonato»), ma è d’amore, si sente, che si parla; scrivendo di morte si scrive sempre di corpo che amato e che ancora amerebbe e amerà, ma l’amore, si sa, lo si fa senza poterlo dire: «L’amore è come quelle parole / che non troviamo nel dizionario».

Dalla postfazione di Stefano Serri

 

 

 

 

GUARDA

quello che dipinse il maestro. Dipinse

la diagonale il raggio

del dolore

-–dipinse

quello che fulmina–.

Pensa al corpo della

Maddalena

–come

non si appoggia su niente come

si rivolge su di sé–.

Osserva la colonna di Maria

–come si è

abbattuta–. Ascolta

nella sua caduta il rumore

di una resa.

È un rumore soave.

Soffermati su quelle lacrime,

che sono la trasparenza.

Quello che dipinse Van der Weyden

è

la verità della morte.

Non il lamento. L’atto. L’atto

di morire

l’atto

di soffrire

che non sono passivi

come

potrebbe sembrare. E non è

un martirio non è

un sacrificio –Cristo non

ci importa

aveva un perché–. È. Con quello che è

non ci si può fare

niente. Non possiamo

fare. Quindi non impegnarti in niente

che non sia

morire serenamente. Poi: ente è una rima ente è

una fine. Cambia il tuo nome torna

fino all’inizio

torna

al senza macchia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NESSUNO guarda verso nessuno.

Tutti gli occhi sono

il raccoglimento. Non c’è nessuno che guardi

davanti

verso il dolore dell’altro. A chi

sostiene Giovanni

a chi piange

sua madre.

Non c’è paesaggio, non ci sono cose

–quattro piante

rachitiche un femore

e un teschio

ai nostri piedi

nel caso non avessimo

inciampato abbastanza–. Così si chiude il cerchio

così

si è temperato l’anello. Le ginocchia

di Cristo la mano

di Maria vengono

verso di te. A un tratto il dolore. Siamo tutti

morti. Nessuno di noi

è più

una persona.

 

 

 

 

 

 

 

 

Come giungesti a queste tenebre caliginose?

Omero

 

 

C’ERA da offrire il nero sangue

per parlare ai morti. Disporre

il taglio nella strozza

–una

due

scosse

poi solo la morte

solo

una vita che defluisce–. Si avvicinano

a bere

ora

potresti chiedere loro se morire

somigli ad aspettare.

Se dopo le acque.

Se quell’oscuro amaro

–quello

che non può sputare che non può

ingoiare–. Forse avevano qualcosa

da dirti

–perché

mi avete lasciata sola.

 

 

 

Rogier van de Weyden, La deposizione (Olio si tela. Prima del 1443.) Museo del Prado.

 

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