Snáthaid Mhór – Poesia irlandese contemporanea
Pat Boran, Natura morta con carote
Introduzione di Dennis O’Driscoll
ISBN: 978-88-96263-37-2
pp. 484, € 15
Forse è all’esempio di Miroslav Holub, scienziato e poeta al contempo, che Pat Boran deve una delle sue grandi acquisizioni – una oggettività che si potrebbe definire scientifica; una abilità di mantenere un determinato distacco dal suo oggetto, di distanziare la sua poetica dall’Io empirico, per conseguire una prospettiva più chiara sul mondo. Eppure il suo distacco non è in alcun modo dogmatico; il calore tonale e l’empatia emotiva non mancano mai laddove risultino appropriati: nella poesia d’amore o nell’elegia. A parte l’attitudine scientifica che Pat Boran spesso adotta nei confronti della realtà, la sua opera riflette un acuto interesse nei confronti del pensiero scientifico stesso. Tra i nomi citati nei suoi libri, troviamo J.B.S. Haldane, Niels Bohr e Albert Einstein. Ci sono “Appunti per un film sulla vita di Galileo Galilei”; una eclissi di luna osservata attraverso la lente poetica; e “Tempo di coricarsi nella casa dello scienziato” suggerisce che i semplici fatti del dato scientifico gettino un incantesimo simile a una storia (“Dicci i nomi delle lune di Giove, / le valenze degli atomi da 1 a 103”). Nella pregnante “Waving”, la rievocazione dell’infanzia confluisce inaspettatamente in una epifania scientifica nel preciso istante in cui una nota ridondante avrebbe potuto costituire un pericolo.
Mentre sperimenta nel suo laboratorio linguistico, Pat Boran – sfidando il rischio delle locuzioni frammentarie – è più spesso un poeta dell’implicazione che dell’esplicazione.
Il lettore si distanzia dalla testimonianza presentata ogni volta che lo scrittore muove verso il click finale della chiusa narrativa. Fin dall’inizio, Pat Boran esce vittorioso da quella che è una delle sfide più dure in poesia: capire quando una poesia sia da considerarsi finita e debba perciò essere lasciata sola. Non esagera mai né mai indugia più del dovuto; le sue poesie sono notevoli sia per la loro risonanza che per il loro ritegno. In senso molto lato, i testi di Pat Boran possono essere fatti rientrare in due categorie principali: poesie che delineano l’umana lotta per dare un senso alla nostra esistenza su un misterioso pianeta a galla – forse addirittura alla deriva – nello spazio; e poesie di modalità più diretta, in cui le persone vengono ricordate in vita, elogiate in morte o celebrate in amore.
Dalla introduzione di Dennis O’Driscoll
Credo
Credo in un momento in cui le cose
divengono se stesse e tutto
prima e dopo è una sorta di svanimento.
Credo, quasi sempre, nelle parole
(come potrei nei diamanti) ma
le provo tra i denti prima di comprarle.
Credo nella verità, nella misura in cui
è una parola con un quasi
infinito numero di sinonimi
(anche se di rado me ne viene in mente qualcuno
e, quando posso, sono incline a pensare che siano
probabilmente solo qualcosa che ho inventato.)
In una nota più sanguigna
credo che potrei essere pericoloso
(per me stesso come per altri),
incline come sono a credere in me—
e questo a dispetto dell’evidenza—
anche se si sa che da solo transigo.
Credo nel prendere accordi,
nell’influenza straniera, nelle nuove idee,
nel cambiare idee, anche—soprattutto le mie.
Credo in sesso e amore
e bambini, se loro credono
in me. Ma questo potrebbe essere un’illusione.
Verità e Diritti? Bene, i pochi che ci sono
appaiono eclatanti, come si dice:
la vita e le sue varie occupazioni.
Altrimenti note come perdita.
Questa credo sia la verità ultima:
la libertà di concedersi di perdere.
Nella rotondità del pianeta
(per scopi pratici), nella vita e nell’arte
come onde elettromagnetiche sulla superficie.
Di qualcosa di ignoto. Questo credo.
E in questo pianeta in mia assenza,
a dispetto della seducente filosofia di Berkeley.
Nel futuro, perciò, anche se l’inglese
non ha sviluppato un tempo per questo
come in qualche modo dubitasse che esisteva.
Così sembrerebbe che io creda
nonostante tutto, nonostante le parole.
Ma io credo. Me ne siate testimoni.
Credo in cose altre,
cose esterne, nella storia,
ma anche in qualcosa di simile al suo opposto:
un tempo non misurato dagli eventi,
in cui gli orologi sono opere d’arte naif
come bottiglie di latte lasciate sotto la luna.
Credo in una sorta di Zen che dice
smorzate le luci per trovare le stelle,
e nella bambolina, la pupilla, dell’occhio.
Nella rima, talvolta. Mi piace la lenta
quasi cauta caduta di una parola nella sua eco,
ma mi piacciono anche le cose incomplete, le sorprese—
Eppure un preavviso sarebbe stato d’aiuto
facilitandomi le cose quando te ne andasti
la scorsa settimana. Oppure forse no.
Se la vita è una staffetta, non una corsa in solitario,
non dovrebbe aiutare a spiegare perché
il progresso sia così spesso avvertito come perdita?
E si torna sempre alla perdita. Ancora credo
che sia la stretta di mano il migliore
e più positivo simbolo dell’umano
(ma ritengo lo sia anche il bacio
e, recentemente, l’onda messicana;
superstringhe, non catene causa-effetto).
In breve (e cos’altro c’è?)
Credo che la sola vera preghiera
sia una lista, non di richieste, ma di fedi;
e questo fenomeno del nominare
sia solo un’altra forma del respiro
che mi ricorda come essere e come andarmene[1].
[1] In inglese il verbo “to believe” contiene in sé i verbi “to be” “essere” e “to live”, “andarsene.