Pia Juul, ho detto, dico

Collana Alfabet – Poesia nordica contemporanea
A cura di Bruno Berni e Morten Søndergaard
Pia Juul, ho detto, dico
Traduzione di Bruno Berni
Postfazione di Elisabeth Friis
ISBN: 978-88-99274-17-7
pp. 156, € 12

La poetessa danese Pia Juul ha senza dubbio la voce più inconfondibile della poesia danese degli ultimi tre decenni. Leggendo un testo della Juul non c’è mai il dubbio se sia stata lei a scriverlo. La critica danese ha persino inventato un nuovo aggettivo per descrivere il fenomeno e dice tautologicamente che la poesia è “juulsk”, indicando in tal modo da un lato che la voce, il tono, la sintassi e il ritmo delle poesie mescolano lingua quotidiana e modi di dire con forme più “poetiche” – spesso in forma di citazioni dirette e indirette della tradizione letteraria; di quella popolare o di quella alta. Ma d’altro canto indicando anche che la voce delle poesie è a un tempo sorniona e umoristica e carica di pathos e disperazione.
Le poesie di Pia Juul fanno esattamente ciò che vogliono. Invitano il lettore a entrare, ma la festa si svolge assolutamente in base ai loro presupposti. Naturalmente si potrebbe protestare che è così con tutta la poesia, ma per quanto riguarda la Juul l’affermazione è vera in modo particolare, poiché lei – esattamente come altri grandi poeti: Emily Dickinson, Paul Celan e molti altri – deve essere letta preferibilmente a lungo prima che il particolare aspetto idiomatico cominci davvero ad aprirsi. Anche per questo è particolarmente favorevole la circostanza che un’intera raccolta sia presentata ora ai lettori italiani. Non c’è nulla di universale nella voce delle poesie – essa è assolutamente particolare e proprio in questa particolarità risiede la sua perentoria e convincente forza poetica. L’epigrafe a ho detto, dico, una raccolta uscita nel 1999 che rappresenta un’opera centrale nella produzione, è abbastanza espressivamente il titolo di una canzone pop: “It’s my party (and I’ll cry if I want to)” di Lesley Gore, nel 1963. Oltre a essere un classico orecchiabile, la canzone di Lesley Gore è a un tempo ingenua e testarda, divertente e triste e in tal modo imparentata con molti dei modi tra i quali si alterna ho detto, dico e allo stesso tempo insiste sull’ostinazione: it’s my party.
In ho detto, dico molte delle poesie rappresentano una qualche forma di memoria, un episodio dell’infanzia, un sogno, un viaggio – cose che si ricordano e si continua a ripetere a se stessi e agli altri ogni tanto. Anche il titolo della raccolta marca chiaramente che si tratta della distanza tra il passato del ricordo e il presente delle poesie che ricordano, e l’interrogativo è sempre cosa accade con il ricordo quando viene trasformato in poesia o viene semplicemente narrato […].

Dalla postfazione di Elisabeth Friis

La casa di mio nonno si chiamava “Kit”
Il vicino si chiamava Lillelund
La sua casa si chiamava “Chalet del weekend”
La nebbia si chiamava foschia
Dietro le dune c’era un mare
Il commerciante in riva a quel mare
si chiamava Haumann
Noi sognavamo
che il nome di sua moglie fosse Agnete
Forse si chiamava Ruth
Il mio nome era latino e menzogna
ma ancora non lo sapevo

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